yomodellaroya
art maker
1998-2002 | "Industrial cave", first personal workshop | Disused cement factory in Bassano d.G. (VI-IT)
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“Viaggio all’origine del rapporto uomo-materia”
Pasquale Difonzo (Zurigo, 1975) nasce all’arte come autodidatta. Nessuna formazione istituzionale, piuttosto un percorso didattico personale correlato a costanti esperienze in cantiere costituisce il suo background. Ciò che lo plasma e lo ispira è una sorta di poetica del ‘recupero’, una schiacciante volontà di intervento sulla materia, la tenace ricerca delle tracce che nella materia stessa si nascondono, non meno che la passione per l’arte informale e gli studi del tutto personali volti alla conoscenza delle ricerche estetiche sviluppatesi nel periodo del secondo dopoguerra, che in lui trovano una rielaborazione estremamente soggettiva. I suoi lavori sono azioni, gesti volti a snidare le potenzialità estetiche di materiali di scarto, siano essi pezzi di piombo, legno, zinco o ferro. La sua poetica abbraccia i concetti di tempo e di spazio rendendoli mezzi. Il tempo nelle sue mani diventa lo strumento di cui si serve per mettere in atto l’azione di corrosione della materia ferrosa che egli tratta pazientemente con acidi e solventi, un’azione di sottrazione quindi, a lasciar in evidenza il segno essenziale; lo spazio, nella concezione dell’artista, diventa cosa fisica e, benché invisibile agli occhi, rimane percepibile nella leggerezza che lo contraddistingue, giustapponendosi esso alla fatica sentita nella forgiatura del materiale, che trova forma proprio nella lotta che segna la nascita dell’opera. Divengono entrambi concetti fortemente reificati, grevi mezzi di formazione dell’esperienza, sentiti e vissuti. Scendono dall’empireo della pura astrazione, perdendo in concettualità ed acquisendo in concretezza, in fisicità. Come scriveva lo storico dell’arte Carlo Giulio Argan : “l’artista ha smesso, di fronte alla materia, l’orgoglio d’una propria spiritualità ed ha accettato l’identificazione, quella materia […] si è rifatta presente ed umana […] si è dilatata in una nuova dimensione di spazio e tempo” 1. |
In Difonzo è questa dimensione spazio temporale propria della materia ad esser oggetto del suo intervento. Egli la pone in evidenza, la fa esistere per quello che è ed è sempre stata, anche quando, prima del suo sguardo, essa rimaneva latente, rifiuto tra i rifiuti. L’operare dell’artista è coincidente con quella che agli inizi degli anni Settanta Bonito Oliva descriveva come “l’aspirazione alla liberazione della vitalità sotterranea” 2. Ed è proprio dall’object trouvè, oggetto senza forma e senza possibilità d’espressione, dalla materia stessa, insomma, e dal ‘nutrimento’ che Difonzo ne trae che la sua ricerca prende avvio e conseguentemente, il momento della progettualità viene a costituire solo un secondo momento verso la realizzazione dell’opera.
L’artista scrive: “L’inizio della mia ricerca avviene sui libri d’arte, di storia o altro genere, anche solo con il dubbio di poter raccogliere qualcosa di interessante, al fine di nutrirmi persino con ritagli di giornale o di immagini rubate con gli occhi in ogni dove. Poi, girovagando di tanto in tanto tra gli ammassi di ferro in rovinose discariche qua e là, la rielaborazione di quanto ottenuto avviene in modo inconsapevolmente spontaneo, a volte aiutato da una matita e un pezzo di carta e nei casi migliori dalla mia macchina fotografica”. E’ uno scambio, un rapporto dialettico quello che l’artista instaura con il mondo della fisicità della materia. Artista e materia sono sullo stesso piano. Il concetto non è prima della cosa. L’idea nasce dalla cosa stessa e ad essa ritorna per farla parlare, per toglierla alla ‘discarica’ e darle dignità estetica, di oggetto in grado di comunicare sensazioni che non sono qualità dell’espressività soggettiva, del mondo fantastico che anima l’artista, ma sono strettamente ed intrinsecamente ed indissolubilmente legate alla materia stessa.
Come scriveva Dubuffet “L’arte deve nascere dalla materia e dal mezzo e deve conservare traccia del mezzo e della lotta di questo con la materia. Non solo l’uomo deve parlare, ma anche il mezzo e la materia” 3.
L’artista scrive: “L’inizio della mia ricerca avviene sui libri d’arte, di storia o altro genere, anche solo con il dubbio di poter raccogliere qualcosa di interessante, al fine di nutrirmi persino con ritagli di giornale o di immagini rubate con gli occhi in ogni dove. Poi, girovagando di tanto in tanto tra gli ammassi di ferro in rovinose discariche qua e là, la rielaborazione di quanto ottenuto avviene in modo inconsapevolmente spontaneo, a volte aiutato da una matita e un pezzo di carta e nei casi migliori dalla mia macchina fotografica”. E’ uno scambio, un rapporto dialettico quello che l’artista instaura con il mondo della fisicità della materia. Artista e materia sono sullo stesso piano. Il concetto non è prima della cosa. L’idea nasce dalla cosa stessa e ad essa ritorna per farla parlare, per toglierla alla ‘discarica’ e darle dignità estetica, di oggetto in grado di comunicare sensazioni che non sono qualità dell’espressività soggettiva, del mondo fantastico che anima l’artista, ma sono strettamente ed intrinsecamente ed indissolubilmente legate alla materia stessa.
Come scriveva Dubuffet “L’arte deve nascere dalla materia e dal mezzo e deve conservare traccia del mezzo e della lotta di questo con la materia. Non solo l’uomo deve parlare, ma anche il mezzo e la materia” 3.
Ecco che pare così che in queste opere l’uomo addirittura scompaia, pare che la presenza del forgiatore rimanga latente, e che la parola sia tratta dalla materia grazie alla funzione maieutica dell’artista.
E la parola in questo caso si concretizza in traccia. Più che di parola si potrebbe trattare, quindi, di vagito. La traccia infatti che risulta nell’opera rimanda ad una primitività dell’essere al mondo. Ne deriva un segno che lungi dall’essere inscrivibile in un linguaggio codificato, in un discorso, rimane ‘frammento’ ispiratore di sensazioni fisiche prima che di concetti mentali.
In questo senso può definirsi ‘informale’ l’operare di Difonzo. E dato l’esteso uso che si è fatto del termine, serve identificarlo con una determinata accezione: ciò che esso indica nel nostro contesto non è il mezzo per l’esplicitazione di una ‘poetica del gesto’ che illustri la valenza del fare artistico, quanto il suo modus operandi : ciò che risulta fondante l’opera è infatti proprio la traccia primitiva che ne emerge, quasi spontaneamente parrebbe, e che invece implica un paziente e faticoso lavoro, tutto teso a vivificare la materia.
Perciò ‘informale’: per sottolineare il denominatore comune che unisce tutte le ricerche artistiche che hanno di volta in volta fatta propria l’espressione, e che caratterizza anche la produzione di Difonzo : “quell’intima” pertinenza al mondo dell’esperienza, al livello di una prospettiva mondana e assolutamente immanentistica. Dunque rapporto diretto fra condizione esistenziale, condizione espressiva e comunicazione, insomma; dunque pertinenza della materia, del segno, del gesto stesso allo spazio e tempo dell’esperienza vissuta, rinuncia ad uno spazio ideale, d’immagine” 4, per lasciare spazio alla concreta presenza della materia un tempo funzionale al consumo, ora fruibile ‘solo’ esteticamente.
Elena Bortolazzi
1 Giulio Carlo Argan, Salvezza e caduta nell’arte moderna, Milano, Il Saggiatore, 1964.
2 Achille Bonito Oliva, Vitalità del negativo, in ‘Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70’, Firenze, Centro Di/edizioni, 1970 (catalogo della mostra, a cura di A.Bonito Oliva).
3 Jean Dubuffet, Prospectus aux amateurs de tout genre, Paris, Gallimard, 1946; trad.it. I valori selvaggi- Prospectus ed altri scritti, a cura di Renato Barilli, Milano, Feltrinelli, 1971.
4 Enrico Crispolti, Pittura d’avanguardia nel dopoguerra in Europa, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1970.
E la parola in questo caso si concretizza in traccia. Più che di parola si potrebbe trattare, quindi, di vagito. La traccia infatti che risulta nell’opera rimanda ad una primitività dell’essere al mondo. Ne deriva un segno che lungi dall’essere inscrivibile in un linguaggio codificato, in un discorso, rimane ‘frammento’ ispiratore di sensazioni fisiche prima che di concetti mentali.
In questo senso può definirsi ‘informale’ l’operare di Difonzo. E dato l’esteso uso che si è fatto del termine, serve identificarlo con una determinata accezione: ciò che esso indica nel nostro contesto non è il mezzo per l’esplicitazione di una ‘poetica del gesto’ che illustri la valenza del fare artistico, quanto il suo modus operandi : ciò che risulta fondante l’opera è infatti proprio la traccia primitiva che ne emerge, quasi spontaneamente parrebbe, e che invece implica un paziente e faticoso lavoro, tutto teso a vivificare la materia.
Perciò ‘informale’: per sottolineare il denominatore comune che unisce tutte le ricerche artistiche che hanno di volta in volta fatta propria l’espressione, e che caratterizza anche la produzione di Difonzo : “quell’intima” pertinenza al mondo dell’esperienza, al livello di una prospettiva mondana e assolutamente immanentistica. Dunque rapporto diretto fra condizione esistenziale, condizione espressiva e comunicazione, insomma; dunque pertinenza della materia, del segno, del gesto stesso allo spazio e tempo dell’esperienza vissuta, rinuncia ad uno spazio ideale, d’immagine” 4, per lasciare spazio alla concreta presenza della materia un tempo funzionale al consumo, ora fruibile ‘solo’ esteticamente.
Elena Bortolazzi
1 Giulio Carlo Argan, Salvezza e caduta nell’arte moderna, Milano, Il Saggiatore, 1964.
2 Achille Bonito Oliva, Vitalità del negativo, in ‘Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70’, Firenze, Centro Di/edizioni, 1970 (catalogo della mostra, a cura di A.Bonito Oliva).
3 Jean Dubuffet, Prospectus aux amateurs de tout genre, Paris, Gallimard, 1946; trad.it. I valori selvaggi- Prospectus ed altri scritti, a cura di Renato Barilli, Milano, Feltrinelli, 1971.
4 Enrico Crispolti, Pittura d’avanguardia nel dopoguerra in Europa, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1970.